no logo - presentazione 


L’obiettivo finale? il peso zero. Niente dipendenti, niente sindacati, niente macchine. -Insomma niente produzione. E’ il sogno dell'industria moderna che più moderna non si può. E’ il Nirvana dei capitalismo, tutto diritti niente doveri, diventato sempre più vicino e sempre più possibile Un paradiso che non deve attendere grazie a una idea tanto spregiudicata quanto semplice: vivere il pianeta, non per quello che è ma per quello che offre. Non un condomino con sei miliardi di inquilini, dunque. Ma un luogo talmente grande dove chi cerca trova. Diamanti e carbone, naturalmente. Ma anche quartieri e periferie dove c'è sempre qualcuno, da qualche parte, disposto a lavorare per te a un quarto di dollaro in meno. H nuovo colonialismo non si limita a estrarre petrolio in Nigeria e portarlo in Inghilterra. O cercare smeraldi nello Zimbabwe e venderli ad Amsterdam. La nuova frontiera è produrre scarpe, maglioni e magliette in Corea, Honduras, El Salvador e venderle a Milano, Londra, Los Angeles.
Insomma, un pianeta del bengodi fatto di "zone franche di produzione", autentiche nicchie industriali nelle quali i più scaltri riescono sempre a infilarsi, alla faccia dei diritti umani e degli accordi sindacali.
Se ne è accorta anche Amnesty International, che alla luce delle sue quaranta candeline ha scoperto che guardare, nelle case private (gli stati-nazione) non è più sufficiente: ora bisogna cercare nella casa di tutti. Il pianeta, appunto. Dietro il termine pomposo e fumoso, sicuramente importante, di globalizzazione si nasconde una versione aggiornata di un vecchio concetto: sfruttamento. Lo sanno i 16.310 dipendenti della Levi's in California licenziati senza troppi complimenti nel 1997 per essere sostituiti da appaltatori che operano in tutto il mondo. Lo sapeva Carmelita Alonzo, "morta di straordinario, come dicono i suoi colleghi, in una di quelle aziende di appaltatori.
E lo sa Naomi Klein, giornalista-attivista (come si definisce lei stessa) cresciuta a Toronto in un quartiere di industrie tessili e in questi giorni in Italia per presentare, il suo libro, No Logo (Baldini&Castoldi), autentico cult del movimento anti globalizzazione . "Da piccola non vedevo che fabbriche e magazzini, uomini e donne che tagliavano e cucivano, imballavano e spedivano. Adesso vedo solamente muri di mattoni a vista e magazzini abbandonati, splendidi esempi di archeologia industriale con qualche loft alla moda. Producevano impermeabili London Fog, molto utili da quelle .parti perché a Toronto piove spesso". Adesso quelle fabbriche non ci sono più, ma a Toronto piove ancora. E la gente indossa sempre imperimeabili di quella marca. Chi li  produce? E dove?
La risposta la trovò la stessa Klein girando il mondo per il suo libro. Finì a Cavitei una città industriale delle Filippine piena di aziende e magazzini. Con una caratteristica: sulle porte di quelle strutture non c'erano insegne. "Se vuoi trovare un posto senza marchi devi andare da quelle parti", scherza la Klein. Cavite è una città senza volto dove si producono prodotti inutili (a che servono, a Cavite, gli impermeabib invernali e i monitor ultrapiatti?), dove si lavora senza sosta, senza diritti e senza sindacati, dove il padrone non è chiaro chi sia (chi ti assume e ti controlla, o "il cliente", l'azienda straniera che fa in modo che ci sia qualcuno che ti assume e ti controlla?). Il tutto con la sensazione che il lavoro oggi c'è, domani chissà Perché se il committente si stufa, o semplicemente trova condizioni migliori, ti saluta senza molti inchini. "Non a caso quelle fabbriche, in Guatemala le chiamano 'rondini’, pronte a volar via da un momento all'altro".
Tutto questo ebbe inizio quindici anni fà quando si impose una nuova strategia di marketing. "A metà degli anni Ottanta le grandi aziende iniziarono a puntare. con molta più decisione sul branding, sulla costruzione del marchio. Fu una autentica rivoluzione. Fino ad allora, anche se si riconosceva l'importanza del marchio, la prima preoccupazione di un industriale era la produzione di beni. Era questa la dottrina dell’era industriale. Oggi le priorità si sono capovolte. Molte, tra le aziende più note, non si occupano più di produrre e reclamizzare le merci: piuttosto le acquistano e vi appongono il marchio. Si tende al "peso zero", appunto: chi possiede di meno, chi ha meno dipendenti, chi produce immagini anziché prodotti, vince. la corsa".
Tutto questo, dice la Klein, funziona solo a una condizione.', che il marchio creda fermamente in se stesso. "Anche in passato si parlava di branding, di etichette.. Ma era una sorta di serena convivenza: c'era il marchio e c’era il prodotto. Oggi si teorizza la possibilità estrema di vendere solo "marchi" Con il risultato inquietante, che i marchi sono dovunque". Come quella scuola americana dove venne istituita la giomata della Coca Cola, durante la quale i bambini dovevano impegnarsi in attività collegate alla famosa bevanda disegni, temi, canzoni. "Un bambino, forse per distrazione, si presentò con una maglietta della Pepsi: successe il finimondo. Il preside chiamò i genitori e li accusò di voler rovinare quello che la Coca Cola aveva fatto in termini di sponsorizzazioni, per la scuola stessa", dice la Klein.
Che t'entra tutto questo con la globalizzazione? "Parlare di marchi senza parlare di globalizzazione è sbagliato. Le due cose vanno a braccetto. Non ci sarebbe il culto del marchio, se non ci fosse la possibilità di produrre a bassi costi in qualche parte del mondo. E non ci sarebbero le aziende rondini del Guatemala se non ci fosse il culto dei marchio". Ma le conseguenze sono anche altre. "Con questa ondata di mania dei marchio è arrivato un nuovo tipo di uomo d'affari, quello che vi dirà sempre, in ogni situazione, che il marchio X non è un prodotto, ma uno stile di vita, un modo di pensare, una gamma di valori, un'idea (vi ricorda qualcuno?). La IBM non vende computer, vende soluzioni per le aziende; la Swatch non è solo orologi, ma il concetto stesso di tempo. In Italia avete l'esempio più evidente di quello che si può fare creando un marchio. Quello che Berlusconi ha fatto con se stesso e con Forza Italia è branding puro ma applicato alla politica. E’ un precedente pericoloso perché ci sono altri magnati, Murdoch ad esempio, che potrebbero ispirarsi a quello che ha fatto il vostro Cavaliere. E per questo che gli occhi del mondo, per un verso o per l'altro, sono puntati sul vostro Paese. E tutto questo lo si vedrà con chiarezza a Genova, in occasione dei G8 - dice la Klein. - Su questo non, ho dubbi: il contro vertice di Genova, quello organizzato da tutto il movimento contro il G8, sarà un grande evento di contestazione, forse il più grande da Seattle in poi".
Sul tavolo, questa volta, ci sono parecchi temi da affrontare. E tutti di grande significato. "Sicuramente sarà un evento contro Bush, perché è il primo meeting internazionale dopo il clamoroso e ostinato no degli Stati Uniti alla ratifica degli accordi di Kyoto sull'ambiente. Nello stesso tempo sarà un evento contro Berlusconi, perché nessuno più di lui rappresenta quello che la filosofia dei logo, del marchio può fare. E un conto è convincere una persona a comprare una paio di scarpe Un altro spingerlo a scegliere un partito". Qualcuno dice che il movimento antiglobalizzazione sia nato più per reazione ad alcuni aspetti del mondo commerciale che per una per vera coscienza politica. "Agli inizi era sicuramente così: il movimento antiglobalizzazione e quello contro l'invadenza dei marchi e della pubblicità erano separati. Quest’ultimo era soprattutto un fenomeno americano, dove i giovani sentivano l'esigenza, molto privata e personale, di provare a vivere in un mondo meno inquinato dalla pubblicità. In America sono arrivati a mettere annunci pubblicitari persino nei bagni delle scuole e delle, università, in modo che chiunque, in quei pochi minuti di intimità, non potesse far altro che fissare l’immagine di una marca di scarpe o di magliette dice la Klein. - Strada facendo i due movimenti si sono uniti. Anche perché che se davvero vuoi cambiare le cose a questo mondo, devi trovare il modo di intaccare il fatturato delle aziende. Le campagne di boicottaggio contro la Shell o la McDonald' hanno dimostrato che una protesta di boicottaggio condotta a livello mondiale può davvero influire sulle decisioni delle multinazionali. Da questo punto di vista Internet rappresenta uno strumento formidabile, perché consente la libera circolazione delle informazioni come pure la possibilità di organizzare forme di protesta in diversi Paesi nello stesso momento. Chi accusa di superficialità il movimento antiglobalizzazione sbaglia. E il messaggio più importante è rivolto ai teorici della fine della storia, quelli convinti che il mondo non possa far altro che andare avanti lungo binari prestabiliti. E una fesseria: il movimento, le forme internazionali di boicottaggio, la protesta via Internet indicano che c'è ancora spazio per il dissenso. La fine della storia è una storia già finita. Il mondo può ancora cambiare.